IL CANE LUPO SENZA NOME

Bambini per strada come cani randagi: storia vera

 

RACCONTO di Benny Parisi

 

“Come lo chiamiamo?’’, ci eravamo chiesti sul finire di quella giornata d’inverno -inizio anni ottanta- che in paese sembrava appartenere ancora al decennio passato.

 

Noi bambini figli di genitori entrambi al lavoro passavamo il tempo per strada -fra la Via Emilia e i cantieri- sempre in bici, sempre armati di fionda e petardi, sempre pronti a terrorizzare chi non poteva mettere il naso fuori dal cortile.

Impennate chilometriche davanti alle finestre di casa della più bella della scuola, convinti, chissà come mai, che fosse sempre lì ad aspettare di veder comparire noi.
Ne ero innamorato e forse lei lo sapeva.
Io, da parte mia, non gliel’ho mai detto.
Così, non l’ho mai baciata.

 

A vederlo sbucare dalla nebbia, nel buio delle sei di sera, ci aveva fatto anche un po’ paura: era un pastore tedesco, o meglio un cane lupo, bagnato, sporco e dall’aria minacciosa.

Ci studiammo, immobili e silenziosi, per un tempo che ci parve infinito e diventammo amici.

Mollammo le biciclette a terra, era così che si faceva, ed iniziammo a giocare con quello che, avevamo deciso, da quell’istante e per sempre sarebbe diventato membro ufficiale del nostro gruppo…che poi, a voler ben guardare, non eravamo tanto diversi da lui.

 

Mi addormentai più tardi del solito, felice ed inquieto insieme, comunque m’addormentai.

 

‘’L’hai incontrato, stamattina?’’, esclamammo all’unisono chiedendocelo l’un l’altro davanti al cancello della scuola; la Bruna, la bidella, già chiamava…

”Dentro, dentro, ch’è suonata!”.
No, non restava che tornare dove l’avevamo lasciato e provare a fischiare: ‘’se fischiamo lui sente e arriva’’, dichiarai io che avevo visto mio padre farlo con i cani che teneva al capannone almeno un migliaio di volte.

‘’Vedrete che arriva’’, chiusi serio avviandomi in classe senza voltarmi, senza salutare.

 

Ci trovammo un secondo esatto dopo aver pranzato, nel punto preciso dove Senza Nome era sbucato dalla nebbia il giorno prima.

Non ci fu bisogno di dirci niente: un’occhiata d’intesa e iniziammo a fischiare.
Dopo poco lui era lì, bello e sporco e magro ancor di più del giorno prima.
Bisognava dargli da mangiare.

Ci precipitammo dal signor Carletto, proprietario del negozio caccia pesca battente insegna -poca fantasia e molta approssimazione- ‘’Carletto Tutto Sport’’.

Oltre ad essere il fornitore ufficiale di esche per tornei di pesca -si tenevano all’insaputa degli adulti al bucone della vecchia fornace abbandonata- un po’ perché c’era solo lui, un po’ perché ‘’i mie bigattini sono i migliori del mondo’’, diceva permettendoci di infilare la mano in quella massa di piccoli vermi per mostrarci quanto fossero belli vivi, vendeva anche cibo per cani, gatti, canarini e roba così.

Gli mostrammo Senza Nome fuori dalla porta ad aspettare; non ci fu bisogno d’altro: il sacco di mangime da 20 chili non ce lo fece nemmeno pagare.
Non che noi avessimo soldi, del resto.

 

Per cuccia gli avremmo sistemato un capanno degli attrezzi che nessuno usava più da anni.

L’avevano costruito in fondo ad uno spiazzo, posto di confine fra le case vecchie e le costruzioni commerciali nuove, proprio dove aveva aperto il suo negozio con annessa abitazione il più ricco del paese.
Ce lo portammo, gli versammo in terra da mangiare, ci salutammo tutti.
Il cane restò lì e noi tornammo a casa.

 

Lo trovammo il giorno dopo che dormiva fuori: bisognava escogitare una soluzione per fare stare più comodo Senza Nome, pensammo.
Ci dirigemmo alla discarica abusiva sul greto del fiume che già in altre occasioni era stata per noi fonte d’ispirazione.
Non ci deluse.

Chissà cosa devono aver pensato quelli che sbirciavano la vita nascosti dietro alle tendine delle finestre, al veder sfilare in strada -sotto la pioggia battente- quella strana colonna: un branco di bambini, un vecchio materasso trainato dalle bici e un cane.
Senza Nome, da quella notte, dormì nella sua casa con tanto di letto tutto nuovo.

 

Provate anche solo ad immaginare cosa provammo il giorno dopo a vedere Senza Nome, il nostro cane, chiuso al di là del cancello del giardino del più ricco del paese.
Suonammo il campanello e fui io a parlare.

‘’Rivogliamo il nostro cane’’, riuscii a dire sibilando a denti stretti mentre tutto il corpo iniziava a tremare.
Lui comparve sul balcone : ‘’adesso è mio’’, ci sentimmo rispondere da quella voce da sfigato, che ricco e sfigato son caratteristiche che si trovano spesso fuse nella stessa persona.

‘’Andate via e lasciatemi in pace.’’

Era una dichiarazione di guerra.
Venne accettata.

 

‘’Guagliò, che minchia ci state a fare qui?’’, bofonchiò il maresciallo quando ci trovò piantati con le bici di traverso davanti alla caserma, per impedire l’uscita alla camionetta dei carabinieri.
Gli spiegammo tutto standocene in piedi in mezzo alla strada; volevamo indietro il nostro cane, fu la conclusione!
‘’Se mò sta dietro ad un canciello come voi stessi asserite, io nun ce posso fa’ nu cazzo; andatevene tutti a casa, ragazzì’, qui tenimmo altro da fare.’’
Sull’altro da fare preferisco sorvolare.
Probabilmente fu in quell’occasione che nacque la mia avversione per le divise.

 

L’obbedienza, si sa, non è virtù da cuori puri.

Di tornare buoni a casa non se ne parlava nemmeno.
Si passava alle cattive maniere.

Il piano era che avremmo scavalcato il cancello dove tenevano prigioniero Senza Nome e l’avremmo liberato, in un modo o nell’altro ce lo saremmo ripreso: avevamo ragione, avevamo raccolto dei bastoni, non avevamo paura di nessuno.

Ci accolse il padre del ladro di cani, che era un gran lavoratore e non voleva rotture di coglioni proprio davanti al suo nuovissimo negozio con annessa abitazione: ‘’Porto il cane lontano’’, ci disse chiudendo lo sportellone del furgone dove aveva fatto salire Senza Nome.

‘’Questa storia finisce qui.’’

 

Lo seguimmo come si segue la bara al funerale, all’inizio adagio adagio, poi pedalando come matti via via che accelerava.
Imboccò il ponte che porta alla città, quello che attraversa il fiume.
Il nostro ponte e il nostro fiume: lì finiva il mondo, oltre non si poteva andare… tanto ormai, a cosa serviva?

Ci fermammo sul ciglio della strada, non ricordo chi fu il primo ad iniziare, ma fischiammo e fischiammo in coro, fischiammo nel vento così forte da sembrare un ululato.

 

Fu l’ultimo saluto al nostro amico senza un nome.