Dea, che adesso è un angelo
di Paul Benedetto
Ero arrivato in Italia dagli Stati Uniti da poco, figlio di emigrati partiti in cerca di fortuna, che poi la fortuna non l’avevano trovata ed erano rientrati.
Del resto rientrare, fortuna o meno, era un po’ il sogno di tutti quelli che se ne erano dovuti andare lontano, poco importa se spinti dalla fame o inseguiti dalla legge.
“Go back to casa”, “see once again my old mamma”, “the famiglia”: non so quante volte ho sentito ripetere queste frasi, dove casa e famiglia erano pronunciate tassativamente in italiano; pure mamma sempre in italiano, in più con le guance bagnate di pianto.
Fatto sta che adesso ero qua, in un paese che non avevo mai visto prima, al quale sentivo comunque di appartenere.
Bastava frequentare gli ambienti giusti -o sbagliati, dipende molto dai punti di vista- per non accorgersi nemmeno poi tanto di trovarsi dalla parte opposta dell’oceano.
I bar di periferia, gli operai, i vestiti buoni per andare in chiesa alla domenica mattina e i bambini belli puliti e pettinati con la riga precisa in primo banco a scuola, che nessuno si accorga della miseria che li ha partoriti, ne senta l’odore, sono gli stessi ovunque tu vada.
Trovare lavoro fu facile, facile come in America, come in tutte le parti del mondo quando sei disposto a barattare la vita con un pezzo di pane.
Lavoravo nei cantieri e in un cantiere sono finito anche qui, proprio il secondo giorno che sono arrivato.
Il primo, di giorno, l’ho passato a salutare the famiglia, abbracciare the old mamma -che poi è la mia vecchia nonna- e cose così, da immigrati.
La storia, quella vera, quella della gatta che m’ha cambiato la vita, inizia qui, su questo cantiere nel bel mezzo di niente, fra ruspe, cemento, bestemmie, muratori ed escavatori.
Quella mattina stavo per caricare il primo di cento sacchi -di quelli da venti chili, che quando hai finito t’han spezzato la schiena- dentro alla betoniera.
Non so nemmeno io dire cose fu a fermarmi: un’ombra, forse un fruscio, un impercettibile movimento…
Infilai la testa in quel buco dove avrei dovuto versare la polvere di cemento e fu allora che la vidi: una cosina piccola, tutta bianca come di farina, miagolante di un verso acuto tipo l’aquila che vola alta nel cielo un secondo prima di scendere in picchiata per attaccare, per niente impaurita.
La tirai fuori da quella trappola mortale e ci fissammo, occhi negli occhi; rimanemmo così -fermi, immobili, come incantati- non so per quanto tempo.
Una voce mi scosse facendomi ritornare alla realtà, da dove non so dire: “America!” -era così che mi chiamavano tutti, America- “Sveglia, sveglia, cos’è, hai visto un fantasma, per caso?”.
Misi la gattina nella borsa di cuoio che tenevo appesa alla cintura e ripresi il lavoro.
La pausa per il pranzo non è fatta per i gatti, specie appena nati: pane, salame, frittata e vino, la micina si rifiutò di mangiare.
Finita la giornata, sulla via del ritorno verso casa, mi fermai all’emporio del paese, di quelli che ci puoi trovare di tutto, dal preparato per farci il brodo alle motoseghe.
“Mi spiace”, mi disse il padrone senza nemmeno alzare gli occhi da un enorme libro sul quale stava segnando gli incassi della giornata, “in magazzino non ho niente per i gatti piccolini”, “sa come funziona da queste parti, qui la gente c’ha poco da mangiare persino per i figli…” e non finì nemmeno la frase.
Avevo capito, eccome se avevo capito.
“Aspetti un attimo, mi faccia vedere”, disse avvicinandomisi quell’omone grande e grosso dall’animo gentile mentre mi voltavo verso la porta per andarmene via.
“Santo dio!”, esclamò, “non avrà che qualche settimana, se non le da qualcosa questa qui a domattina non ci arriva”.
Ci accordammo che sarei andato a casa, lui nel frattempo avrebbe incaricato la figlia -“è un po’ strana”, ci tenne a farmi sapere, “vuol bene agli animali…”- di raggiungermi dopo essersi procurata qualcosa da dare alla micina.
“Possiam mica farla morire…” disse tutto serio salutandomi e io capii da chi aveva ereditato quell’essere un po’ strana la figlia che di lì a poco mi avrebbe raggiunto a casa.
Bussarono alla porta e andai ad aprire.
“Dov’è?”, mi chiese la ragazza, entrando senza salutare.
Era bella come non avevo mai visto nessuna prima, con una massa di capelli rossi che sembravano di fuoco.
“L’ho messa di là”, riuscii a dire mentre nella testa e nel cuore mi frullavano mille pensieri, “accanto alla stufa”.
Le demmo da mangiare una specie di pappetta che Marta, così si chiamava la figlia dell’omone della ferramenta, aveva messo in una siringa per fare le punture.
Poi, dopo che ebbe mangiato, la lavammo per benino con un panno inumidito.
Da bianco che era, impastata di cemento, il suo pelo piano piano cambiò colore…
“E’ rossa!”, esclamammo con una sola voce, scoppiando in una fragorosa risata.
“Come la vuoi chiamare?”.
“Dea, ecco come la chiamerò; è bella come una Dea, proprio come…come una dea”.
Avrei voluto dire “bella proprio come te”, ma prevalse la timidezza, sapete come funzionano queste cose.
Nei giorni seguenti all’emporio mi videro comparire tutte le sere, puntuale come i treni di quando c’era Mussolini; che strano modo di dire avevano in Italia, nessuno però che si ricordasse di quando noi alleati gli abbiamo dovuto salvare il culo…
Con la scusa di comprare da mangiare per la gatta- prendevo giusto giusto una scatoletta alla volta, non di più- mi fermavo le ore a parlare con Marta, dopo la chiusura.
Dea, da parte sua, da quando l’avevo presa con me non mi aveva più lasciato, nel vero senso della parola.
La infilavo in un marsupio che avevo fatto cucire apposta e me la portavo ovunque andassi, persino al cantiere, che sembrava non dovesse terminare mai.
Con Marta, a furia di scatolette e di chiacchiere alla sera, finì che diventammo fidanzati.
Quando ci sposammo, ci volle tutta la pazienza di questo mondo per convincere il prete, la nostra micia ci fissava dall’alto dell’altare.
Del resto, chi meglio di lei poteva farci da testimone?
Era l’unica presente quel giorno lontano, quando per la prima volta le demmo da mangiare e fra di noi scoppiò l’amore.
Passarono gli anni, quello sarebbe stato un giorno speciale, Marta era entrata in ospedale la sera prima, sarei diventato papà di una splendida bambina.
Andai al lavoro come al solito; tutto filava liscio…
Mi attardai nell’edificio che ara programmato sarebbe dovuto essere abbattuto, avevo la testa altrove, lo si può anche capire.
Cercavo d’immaginare quello che si prova quando si diventa padre…
All’improvviso la gatta mi attaccò.
“Hey, che ti prende, sei impazzita?”
Sbuffava e sibilava, avanzava verso di me come una fiera inferocita.
Balzò mirando agli occhi, mi sbilanciai cercando di proteggermi il volto con le mani, camminando all’indietro.
Persi l’equilibrio e caddi dall’impalcatura un instante prima che la palla da demolizione colpisse il palazzo nel punto esatto in cui mi trovavo io, mandandolo in mille pezzi.
Quando riaprii gli occhi capii di essere vivo.
Mi trovavo disteso su di un mucchio di sabbia che aveva attutito la caduta.
La gatta morì sul colpo.
Aveva dato la sua vita in cambio della mia.
La bimba nacque quella sera.
“Come vuoi chiamarla”, mi chiese Marta mostrandomi quel corpicino minuscolo, la testolina avvolta da una sottile peluria rossa come di fuoco.
“Dea, la chiamerò Dea.
Adesso riposa.
Poi ti spiego”.